Lo diceva anche lo zio Charles

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Ieri era il 1° maggio, la “Festa dei Lavoratori”.

Per celebrarla nel modo dovuto, naturalmente mi sono astenuto dal lavorare. Così come dallo scrivere / pensare cose troppo serie.

Ma una cosina la volevo e vorrei tuttora dire, o meglio, lasciare che qualcun altro la dica (certamente meglio di me).

La rubo da niente di meno che il vecchio zio Charles, quando, nel 1988, si espresse in modo piuttosto chiaro, su questa brutta faccenda del lavorare.

È il punto di vista di chi si è affrancato tardi, si guarda indietro e vede l’orrido dietro lui, che gli aveva già prosciugato mezza vita ma che, per sua fortuna, non è riuscito a fottergliela intera.

Si tratta della lettera che lo zio Charles scrive all’editore che gli salvò la vita (John Martin, che fondò la Black Sparrow Press), molti anni prima, quando gli venne proposto, dietro al compenso a vita di 100 dollari al mese, di diventare uno scrittore professionista e di dedicarsi a quello, e a nient’altro, per gli anni che gli restavano da campare.

Non una proposta milionaria, ma tanto valse per renderlo libero e meno infelice.


Lo zio Charles

Ciao John,

Grazie per avermi scritto. Non credo faccia male, a volte, ricordare da dove si viene. Tu sai i posti da dove vengo io. Le persone che ne scrivono o ci fanno i film, non ne hanno idea. Chiamano quella vita “dalle 9 alle 5” ma quel tipo di lavoro non è mai dalle 9 di mattina alle 5 del pomeriggio.

Non hai la pausa pranzo in quei posti, perché gli altri dipendenti, temendo di perdere il lavoro, preferiscono non farla. E poi ci sono gli straordinari e i registri non sembrano mai dire davvero quanto tempo ti sei fermato in più. E se ti lamenti di tutto ciò, ci sarà un altro sfigato come te pronto a prendere il tuo posto.

Conosci il mio vecchio detto? “La schiavitù non è mai stata abolita, si è semplicemente estesa a tutti i colori della pelle”.

Ciò che mi fa male è vedere la decadenza costante di questa umanità che lotta per tenere lavori che non vuole ma ha troppa paura dell’alternativa. Le persone sono vuote. Sono semplicemente corpi pieni di paure, con menti obbedienti. Non hanno più colori negli occhi. Le loro voci diventano orrende. E così i loro corpi. I capelli, le unghie, le scarpe. Tutto diventa orrendo.

Da ragazzo non potevo credere che le persone scambiassero le loro vite per quelle condizioni. Da vecchio uomo che sono oggi, non riesco ancora a crederci.

In cambio di cosa accettano una vita del genere? Il sesso? La televisione? Un’automobile a rate? Avere dei figli? Figli che avranno la loro stessa misera vita?


Tanti anni fa, quando ero giovane e passavo da un lavoro all’altro, ero così ingenuo che a volte volevo conversare con i miei colleghi: “Hey, ma vi rendete conto che da un momento all’altro il capo può entrare qui dentro e mandarci tutti a casa?”

Loro mi guardavano. Per loro rappresentavo un pensiero che non volevano entrasse nella loro testa.

Ora nel mondo del lavoro ci sono licenziamenti di massa. Centinaia di migliaia di persone si ritrovano senza un lavoro e sono sconvolti.

“Ho dedicato a quel lavoro 35 anni della mia vita…”

“Non è giusto”

“Non so cosa fare”

La verità è che gli schiavi non vengono mai pagati abbastanza per potersi liberare. Vengono pagati il giusto per poter sopravvivere ed essere costretti ad andare a lavorare ogni giorno. Io vidi tutto questo. Perché gli altri non ci riescono? Immagino che per me la panchina del parco o il bancone del bar andassero già bene. Perché non finire subito lì? Perché aspettare che mi togliessero il lavoro?

È stato un sollievo enorme uscire da quel sistema di merda. E ora che sono qui, un cosiddetto scrittore professionista, dopo aver ceduto i primi cinquant’anni della mia vita, mi rendo conto con ancora più lucidità di quanto sia disgustoso.

Ricordo una volta, lavoravo in un’azienda di imballaggi. A un certo punto uno degli altri operai ebbe una crisi e disse ad alta voce: “Io non sarò mai libero!” Passò uno dei capi lì vicino (si chiamava Morrie) e fece una risata orribile, godendo del fatto che quell’uomo era intrappolato per tutta la sua vita.

Ho avuto la fortuna di scappare da quei posti e non importa quanto ci ho messo: mi ha donato una forma di gioia che ha il sapore del miracolo. Ora scrivo con una mente vecchia dentro un corpo vecchio, ben oltre quell’età in cui gli uomini pensano di poter ancora scrivere. Ma visto che ho iniziato così tardi, lo devo a me stesso: devo continuare.

E quando le parole diventeranno indistinguibili e avrò bisogno di qualcuno che mi aiuti per fare le scale e non riuscirò più a distinguere un uccellino da una clip in metallo, sono sicuro che comunque ricorderò bene come sono uscito dal massacro della vita in fabbrica per riuscire almeno a morire in modo generoso.

 Non aver sprecato interamente la mia vita mi sembra un gran bel successo.


Charles Bukowski, 1988

Mi son perso qualcosa?

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Stavo pensando che dovremmo imparare a perderci un po’ di più le cose. O meglio: a non volerci troppo male se ci capita di perderne.

Di recente ho scoperto che la sensazione che provo da anni non solo è codificata e riconosciuta, ma che addirittura ha una sua bella sigla nuova di pacca: si chiama FOMO ed è la Fear Of Missing Out, la “paura di essere tagliati fuori”, di perdersi qualcosa.

Purtroppo è qualcosa di inevitabile, l’altro lato della medaglia, il prezzo da pagare per vivere nel 20% di mondo che ha a disposizione l’80% delle risorse, perdipiù nel mondo digitalizzato del 2024.

Le opportunità sono pressoché sterminate.

Ogni giorno potrebbe essere il più importante della nostra vita.

Se ieri abbiamo fallito, oggi possiamo andare a letto sapendo che domani è tutto di nuovo in discussione. Basta un guizzo, un’idea, un clamoroso colpo di culo, e potrebbe essere la svolta definitiva.

Ci sistemiamo per sempre.

Da un lato è bello, perché c’è sempre speranza di riscattarsi, visto che ognuno ha praticamente potenziale infinito, ma dall’altro?

Oggi siamo (o possiamo essere, basta averne la voglia, ci diciamo sempre) tutti registi, attori, musicisti, ballerini, esegeti e santoni.

Un giorno Khaby Lame diventa famoso perché allarga le mani e fa la smorfia e cambia tutto.

Così noi. Perché siamo ancora quelli che siamo e non abbiamo i milioni di Briatore? Eppure gli strumenti ci sono. Che cosa aspettiamo?

Perché non ci inventiamo una smorfia buffa da fare anche noi come Khaby Lame, così poi diventiamo famosi, andiamo in televisione e ci grattiamo la pancia?

Se invece ci tocca alzarci ogni mattina e fare quello che facciamo è segno che siamo dei coglioni. Inevitabile.

Dunque tutte ste mille possibilità del mondo producono, come estremo risultato, la nostra perenne sensazione di essere dei falliti.

Figo, eh?

Almeno un tempo i nostri nonni potevano dire di essere poveri, di non avere le possibilità. Potevano dire “ah io se fossi al suo posto!” ed erano giustificati. Era vero infatti che non avevano le possibilità.

Ma oggi, visto che potremmo tutto, siamo tutti dei lavativi, dei perdigiorno, degli incompiuti e inespressi.

Come facciamo a volerci bene, con tutte le incredibili opportunità che ci passano sotto il naso, come i salmoni con gli orsi, senza che riusciamo a coglierne mezza?

Ci è praticamente impossibile vivere senza ricevere informazioni. Google Calendar ci manda i promemoria, qualsiasi dispositivo – dalla sveglia al frigorifero – ci racconta cose del mondo, i devices ormai sono le nostre propaggini, anche quando non vogliamo, la tecnologia ci ascolta e ci suggerisce cose che potrebbero interessarci.

Come ci si difende? Come ci si assolve?
Mi son detto che l’unico modo per proteggersi da sta gran brutta canaglia della FOMO, ancora una volta, è lei: la consapevolezza.

Mettersi lì e capire che è impossibile seguire tutto, cogliere tutto, per poter rallentare e tornare al proprio ritmo. Rifiutare il confronto con le gioie e realizzazioni altrui, specialmente se patinate dalle copertine social, e riconnettersi con i ritmi naturali, accettando di non cogliere input e opportunità.

Fare un passo indietro per compierne due avanti, perdersi qualcosa per ritrovare se stessi.

Il bambino più bravo del mondo a coltivare carote

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Mi ricordo che quando ero piccolo, o meglio, piccolissimo, andavo nell’orto con mio nonno e i suoi fratelli. Li seguivo mentre piantavano i paletti per sostenere i fagioli, scacciavano le bestie delle patate con non so quali intrugli prodigiosi, potavano i pruni o raccoglievano le zucchine e i pomodori.

In particolare, non chiedetemi come mai, tra tutto mi incuriosivano le carote.

Tanto che un giorno ricordo di aver smesso i miei giochi con la terra, con sollievo di lombrichi e formiche, per avvicinarmi a mio nonno e domandargli tutta una serie di cose sul fantastico mondo delle carote.

Mi piaceva quel loro far capolino con la capocchia arancione, sovrastata dal verde pennacchio. E poi, diciamocelo, nel minestrone della mamma mi piacevano da matti.

Quel giorno tornai a casa con tutta una serie di informazioni dettagliate sul periodo di semina delle carote, sulle cose che avrei dovuto imparare e seguire per diventare il bambino più bravo del mondo a coltivare le carote.

Iniziamo dalle carote, mi rassicuravo. E poi in caso vediamo di estendere il discorso. Che la cautela, si sa, è il miglior concime.

Era un altro mondo, dai. Non vuole essere la solita manfrina del si stava meglio quando si stava peggio, ma inopinatamente alcune cose erano più genuine, o no?

Tutta la settimana, per esempio, aspettavo la domenica, che era quel giorno in cui si andava a messa e si pregava Gesù perché la Juve vincesse.

E poi al pomeriggio si vedevano le partite nel modo più bello e romantico: immaginandole alla radio.

Era un mondo pieno di carote e di timore che le talpe le mangiassero tutte. Ricordo che in quegli anni, se mi avessero chiesto di quale animale avessi in assoluto più paura, al mondo, avrei risposto subitissimo le talpe! Le talpe, così cieche, avrebbero finito per non capire quali fossero le mie carote, rispetto a tutte le altre carote, e me le avrebbero mangiate tutte e non avrei potuto dimostrare né a mio nonno, né ai suoi fratelli, né a nessun altro che io ero diventato il bambino più bravo del mondo a coltivare le carote.

E quindi? Niente, non c’è nessun e quindi, ma l’altra sera, quando nella busta di insalata pre-incartata ho trovato quale strisciolina di arancione, mi son detto “ma poi, con quel discorso delle carote?”.

È che quando cresciamo, con la scusa che siamo bambini e ci ricordiamo tutto, non prendiamo appunti e va a finire che le cose si dimenticano.

Le radici (noi, che sappiamo dove siamo nati, ma non sapremo mai dove si muore)

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Che cosa sono le radici?

Una domanda “facile” a cui non è per niente facile rispondere. È soltanto qualcosa che ci tiene saldamente ancorati al terreno o piuttosto qualcosa che ci permette di protenderci verso l’ignoto?

Se è vero, come diceva qualcuno, che noi siamo quello che permane dinamicamente, le radici sono l’atomo indivisibile di noi stessi. Se ci dovessero ridurre ai minimi termini, ecco che alla fine di ogni semplificazione apparirebbero loro, le nostre radici, irriducibili, impossibili da semplificare ulteriormente.

Le mie radici, si trovano tra le radici delle piante, ma ognuno ha le proprie, si intende. E assomigliano un po’ tutte, se ci fate caso, le radici degli uomini. Assomigliano un po’ tutte in quel loro speciale modo che hanno di svolgere una preziosa funzione di riferimento, di richiamo, di protezione, di riconoscimento, di identità.

E allora proteggiamole un po’, se abbiamo modo, che per quanto salde e antiche, anche le radici sono creature viventi, esposte alla durezza della stagione.

Se non mi lasci non vale

È vero che era il ‘74 (Settantaquattro/00) quando Dori Ghezzi e Wess cantavano che non si sarebbero lasciati mai, però come sono cambiate le cose, in così pochi anni!

Adesso pare che ci si debba lasciare PER FORZA. È proprio un paradigma, quello del lasciarsi.

Che uno va lì dal proprio fornitore di telefonia mobile e più o meno gli dice. Scusi buonuomo, ma perché i miei colleghi mi perculano, che loro pagano pochissimo per avere moltissimo, e io invece che sono vostro cliente, pago da sempre moltissimo per avere pochissimo?

Eh perché loro sono NUOVI.

Nuovi.

Capito?

Il fatto è che loro sono nuovi e te dunque sei vecchio.

Un tempo si sarebbe detto Fidelizzato, mentre adesso invece si dice semplicemente “non nuovo” oppure “vecchio”. Se sei un vecchio cliente, e sei con loro da quando davano in tele Pippi Calzelunghe (sigh!), significa, a occhio, che ti fotti.

Proprio così: si leva la vocina da dietro che dice la nostra clientela è gentilmente pregata di fottersi.

Però, oh: va detto. Bravi, son bravi! Ti dicono come devi fare. Ti fanno consulenza. Ti dicono di tradirli, di andare con un altro, così dopo un po’ che te lo farai mettere dall’altro, poi tornerai e sarai diventato come nuovo.

Sì sì, è così. Ti fai usare un po’ dagli altri, così diventi nuovo. A me parrebbe un controsenso, ma viviamo la modernità, i controsensi non hanno più ragion d’essere.

E così niente, da lunedì mi si attiva il contratto con quegli altri là, che ai loro clienti – a quelli che da anni li stanno ingrassando – gli danno dei gran calcioni tra le costole, ma a me, che poverino sono NUOVO, ancora un po’ e mi fanno i … con il culo.

E non fatemi essere volgare, ché non ne ho mica molta voglia.

Però eccheccazzo, no? Un ecchecazzino lo possiamo dire?

Riassumendo il discorso è questo: se sei fedele rompi il cazzo e sei fesso; per essere preso in considerazione devi essere nuovo.

Che poi non ci vuole mica il mago Forrest per estenderla un attimo, allargare lo sguardo e capire come questo strano senso cosmico non sia nient’altro che la vita che stiamo vivendo (e alimentando).

Il nuovo affascina, evviva il nuovo.

Dimenticando che anche il vecchio, prima di essere vecchio, era stato nuovo.

Vola il tempo lo sai che vola e va.
Forse non ce ne accorgiamo,
ma più ancora del tempo, che non ha età,
siamo noi che ce ne andiamo

– F. De André –

 

Sul matrimonio combinato (e il Medioevo illuminato)

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Questa mattina stavo pensando che in qualche modo ho incoraggiato l’unione di ben due coppie. Ovviamente poi c’hanno messo e ci stanno mettendo il loro e le cose pare stiano funzionando.

Due su due mi pare una meravigliosa statistica, se si considera che viviamo nel tempo in cui i matrimoni, e più in generale le unioni, hanno vita da farfalla e non si è mai registrato un COSÌ ALTO TASSO DI SEPARAZIONI e via discorrendo.

Allora, non so come mai, mi è venuto di pensare a quel tempo, diversi secoli fa, in cui la prassi era quella di “combinare” i matrimoni, molto spesso per ragioni di casate e lignaggio, ma non necessariamente.

Oggi, a ripensare “ai secoli bui” del Medioevo, ci viene quantomeno da tirare un sospiro di sollievo. Già: proprio vero che non dev’essere stato nient’affatto bello vivere in un tempo in cui potevi essere additato di essere uno stregone o una strega, perseguitato, bruciato vivo per un semplice sentore, senza avvocato difensore, parcelle e compagnia cantante.

Però sta cosa dei matrimoni combinati, secondo me, meriterebbe un discorso a sé: ho il sospetto che in realtà fosse molto MENO TETRA E SPETTRALE DI QUANTO PENSIAMO OGGI, giudicandola col NOSTRO sistema di vivere il nostro tempo, col nostro bagaglio culturale.

C’era qualcuno che decideva chi avrebbe sposato qualcun altro. Stop. E si cercava di attenersi. Ovviamente non credo che ci fosse molto spazio per la passionalità, l’affinità elettiva e tutte quelle belle robine lì, però credo che ci fossero anche alcuni VANTAGGI che oggi per esempio non ci sono.

Anzitutto credo occorra sgombrare il campo da un presupposto falso: non sono nient’affatto persuaso che gli sposi realmente vivessero il matrimonio forzato come una forzatura, per l’appunto. In fondo era così da secoli, era la normalità, nessuno avrebbe mai potuto pensare di sposare a bell’agio la persona di cui si era in qualche modo invaghito, salvo poderosi colpi di culo.

Per il resto, se qualcuno sceglie per te, superata l’inziale fase di smaronamento, da lì in poi è una semi figata: non devi fare altro che cercare di fare del tuo meglio, di rendere la cosa il più sopportabile possibile. La cosa veramente goduriosa è che in nessun caso puoi SENTIRTI RESPONSABILE DELLA TUA INFELICITÀ, dacché sono stati altri ad obbligarti a quella situazione.

E il non sentirsi responsabili della propria infelicità, secondo me, è veramente una figata pazzesca.

Prendiamo oggi. Oggi, teoricamente, possiamo tutto. Ci conosciamo, ci valutiamo, ci testiamo, ci scegliamo, per un po’ ci confermiamo e poi magari no, chi lo sa.

SIAMO LIBERI.

Ma parafrasando Guccini potremmo anche dire che la “libertà può portare male, se non si conosce bene come domarla” (lui diceva “fantasia”, ma mi si passi la licenza poetica, suvvia!).

Siamo liberi, nessuno ci forza e che cosa otteniamo? Otteniamo il più alto tasso di separazioni e malumori.

Dunque il Medioevo era un periodo buio, coi matrimoni forzati, mentre oggi siamo liberi e illuminati, giusto?

Io credo che il matrimonio combinato, svestendo i due protagonisti dalle responsabilità della scelta, li AIUTASSE, in qualche modo. Da quel momento in avanti anzitutto non si sarebbero odiati, visto che non era colpa loro ma che li avevano “messi insieme” altre persone; avrebbero probabilmente finito con il cooperare, per cercare di arrecarsi il meno fastidio possibile e in qualche modo forse l’avrebbero sfangata, se non altro perché dopo un po’ che ci si frequenta, dovrebbe pure insorgere un minimo di empatia e di vicinanza affettiva.

Invece adesso potendo disporre bellamente di se stessi e degli altri, si finisce con l’approcciarsi al matrimonio (e alle unioni, più in generale) come il Giacomino di Tre uomini e una gamba:

ritenendo di poter cambiare sempre e comunque, prendendola alla leggera e sentendosi troppo deboli di fronte alle mille insidie a cui la coppia ogni giorno è esposta.

La libertà di scegliersi è anche la libertà di scegliere di allontanarsi ed è per questo che non sono per niente persuaso che la forma medievale fosse poi tanto peggiore, tanto più arretrata.

La presunta libertà degli squali

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Si fa abbastanza presto a dire libertà. Così come si fa presto a credere di non averla. Ancora più presto a pensare che altri ce l’abbiano.

Per esempio uno squalo.

Chi meglio di uno squalo può dirsi libero? Prendiamo per esempio uno dei più temibili predatori degli oceani: lo squalo bianco. O se non lo vogliamo prendere bianco per timore di razzismo, prendiamolo pure tigre, ok.
Prendiamo uno squalo di quelli che se ne stanno tutto il giorno (e tutta la notte) a sondare gli abissi in cerca di prede, per mettere qualcosa tra gli acuminati denti di cui dispongono e che si dice ricrescano incessantemente, beati loro.

Lo squalo per esempio non mette la sveglia, non ha l’orologio. Non prende smoking in affitto, non fa tagliandi all’auto né porta i figli a scuola. Lo squalo, si capisce, è libero e vive liberamente nel proprio ambiente naturale.

Mica come noi che ci diciamo vessati, censurati, tassati, oppressi e che conduciamo esistenze nient’affatto invidiabili.

Gli squali sì che sono liberi.

Però poi mi basta un attimo e se mi calo nei panni dello squalo, poverino, non mi pare mica tanto una figata neanche la sua.

Mi sono immaginato squalo. Mi sono visto lì a stare tutto il giorno nell’acqua fredda e meno male che ho una pelle che sembra una muta, ok, ma è pur sempre acqua fredda.

E non ci vedo un tubazzo e a volte mi pare sia un tonno e poi va a capire cosa sia. E anche quando sono dei tonni e cerco in qualche modo di avvicinarmi, magari quando è il momento buono, zac! Arriva Rio Mare e me li prende tutti lui per metterli in scatolette con un po’ di olio d’oliva della peggior specie e sfamare gli umani, quelli vessati e stressati che si radunano nelle corsie dei supermarket per comprare ste scatolette di tonni che magari me le dessero a me.

E chissà come dormirei, se fossi uno squalo. Magari con un occhio aperto e uno chiuso, che se mi distraggo un attimo, chissà dove vado a finire e magari sbatto dentro a una balena che mi dà una codata che me la ricordo per un pezzo. Mica come gli umani, che vanno a letto e dormono sotto al piumone e possono stare fermi, che almeno nel letto non ci sono le correnti.

E tutti che mi odiano. Dicono che sono uno squalo e che sono cattivo. Ci fanno anche i film per prendermi in giro, ci mettono le musichette che fanno ta-ta-ta ta-ta-ta quando mi avvicino all’impavido surfista per darci una mozzicata al gallone, che cosa so io che è un surfista?

Tutti mi odiano perché sono in cima alla mia piramide alimentare, perché ho i denti aguzzi e sento il sangue a km di distanza, ma io cosa ci posso fare se sono nato squalo? Voglio vivere né più né meno come vuole vivere il delfino, che invece sta simpatico a tutti e ci fanno i film teneri che porta in groppa i bambini e fa così col musino e tutti ridono e dicono “poverino” e gli danno i pesciolini a forma di caramelle e le caramelle a forma di pesciolini e gli dicono delfino goloso.

Ma poverino un cazzo, il delfino! Poverino lo squalo, che tutti pensano sia libero e invece deve stare h24 a sondare gli abissi e ha un sonno della madonna e deve essere cattivo per natura e mangia sempre più o meno le stesse cose, mica può andare al ristorante, o prenotare delle sfizierie da bacchette & forchette.

Bisognerebbe avere un po’ più di rispetto per la libertà degli altri, altroché.

Specialmente quando non ce l’hanno.

È nato prima il tonno o la cipolla?

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Tonno e cipolla. Non c’è nessun espediente letterario dietro al titolo che leggi qui sopra. Questo prezioso contributo parlerà nient’altro che di tonno e di cipolla. O meglio: della loro unione.

Dunque se non sei un fervido amante delle migliori tradizioni culinarie, ti chiedo la cortesia di passare oltre.

Altrimenti rispondi a questa semplice domanda: secondo te è nato prima il tonno o la cipolla?

Detta così, sembra quasi una domanda sciocca, no? Quasi irriverente, perché no? Eppure forse, ma molto forse, è più profonda di quanto si creda.

Come possono due elementi, appartenenti a due regni naturali così tanto diversi, quasi opposti, come l’Oceano e Mamma Terra, produrre un’accoppiata tanto perfetta, che in compenso Vialli e Mancini e Cochi e Renato erano dei pivelli alle prime armi?

Come seconda cosa vorrei chiederti se secondo te, volendo (ma poi, perché volerlo?) scindere il tonno dalla cipolla, quale dei due elementi potrebbe proseguire anche la carriera da solista e quale invece perderebbe di più, dall’assenza dell’altro.

Per me solo la cipolla potrebbe continuare un’esistenza autonoma, sebbene fortemente compromessa.

Mi spiego meglio. Il tonno senza cipolla ha perso qualsiasi pretesa di serietà, mentre la cipolla, sia pure compromessa, senza tonno mantiene comunque una sua (pretenziosa?) autonomia.

[È ovvio (confermarlo mi pareva offensivo nei confronti della tua intelligenza) che sto parlando del tonno all’olio di oliva, non di tutte le altre stranger things e porcherie analoghe pseudo salutiste-vegane-km0, che diomio non farmi parlare]

Per altro IL TONNO E LA CIPOLLA costituiscono anche una réclame se vogliamo edificante per il popolo bue.

Vanno bene almeno per questi 2 motivi nazionalpopolari:

  • Sono straordinariamente buoni
    Nessuno lo sa spiegare, ma quando la tonnosità del tonno incontra la cipollosità della cipolla, si sprigiona un’accelerazione sensoriale che non incontra limiti di velocità, nell’autostrada del gusto
  • Sono meravigliosi esponenti dell’arte povera
    Dimostrando che non servono necessariamente stipendi a 4 zeri per mangiare le migliori cose del Globo Terracqueo, inneggiando all’arte povera e con questa a tutti i poveri con le pezze al culo che mantengono al sicuro i culi dei ricchi, impomatati con la Pasta di Fissan

Per cui niente, la vita rimane comunque una cosa grama, non è che voglia ergermi a paladino vitale, ci mancherebbe. Però se ogni tanto con quei quattro denari che ti ritrovi in saccoccia ti compri del tonno da discount, rigorosamente in olio di oliva, e lo accompagni A CASO a della cipolla tritata, beh, amico mio.

Beh.

E non aggiungo altro, valà.

Questa sera ho cenato con Giacomino

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Ero lì che brandellizzavo le povere melanzane – che di lì a poco avrebbero costituito la base di un succulentissimo condimento per pastasciutta – quando ho pensato che sono un meschinello.

E fin qui, niente di nuovo.

Poi, va a capire perché, m’è venuto in mente che ce ne saranno molti altri, di meschinelli come me. Allora lì per lì mi son detto tipo che mal comune mezzo gaudio, ma poi mi sono subito sgridato, perché quella cosa del mal comune e del mezzo gaudio, secondo me, l’hanno inventata i pochi, per dire ai molti di stare buoni e cari, a cuccia, che intanto loro se la godono.

Comunque.

Comunque poi ho capito che delle volte invece è vera la cosa del mal comune e del mezzo gaudio ed è lì che è venuto a trovarmi Giacomino.

Quasi mai, ma alcune volte siamo invece profondamente accomunati tra noi. E non solo tra noi, ma addirittura anche con tutti gli altri esseri viventi. Per esempio nel nostro comune rapporto con la natura, intesa come nostra madre, o matrigna che dir si voglia.

Tutti noi saremo chiamati, chi prima chi dopo, a vivere momenti di profondo scoramento, di somma perdizione. Tutti noi, nessuno escluso (nemmeno gli oligarchi), dovremo trovare le forze quando non sapremo nemmeno di averle.

A tutti, prima o poi, capita per esempio il destino di diventare orfano. La morte fa parte della vita, dunque siamo destinati ad essere abbandonati, prima o poi. Siamo destinati a perdere dei riferimenti, a cavarcela da soli, a raddrizzare la mira.

Ed è lì che vale Giacomino.

Sì, perché nonostante sia conosciuto dai più come il cantore del più cupo pessimismo, nonostante sia considerato una specie di Quasimodo sfortunatissimo, che ha potuto pensare quel che ha pensato solo grazie ad una serie inimmaginabile di storpiature, Leopardi in realtà ci ha lasciato (per chi riesce a rendersene conto) un messaggio di una DIROMPENTE FORZA SOCIALE.

Il testamento di Leopardi è tutto tranne che pessimista. È una specie di ginseng intellettuale, un energizzante del pensiero.

Giacomino ci dice che ci saranno mille e poi mill’altre difficoltà, che tutti, nessuno escluso, siamo destinati a soffrire, ma che, proprio per questo, dobbiamo assolutamente fare un’umana catena: possiamo consorziarci, farci vicendevolmente forza, prestarci mutuo soccorso.

Già nel Dialogo di Plotino e di Porfirio del 1827, ci spacca il cuore con parole che non possono lasciarci indifferenti e che, una volta per tutte, spero possano restituire un’idea più giusta di lui:

[…] attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora  […]

Pessimista cosmico, eh?

Questo tema verrà poi ripreso pressoché in punto di morte, nella Ginestra del ’36.

Nella sua breve vita, (muore a Napoli nel 1837, 15 giorni prima di compiere 39 anni), dunque – contrariamente a quanto si carpisce dalla più semplice vulgata studiata a scuola – io ci vedo piuttosto un messaggio rivoluzionario e dirompente: siamo veramente tutti sulla stessa barca, bestie e uomini, e fare VERAMENTE del mal comune un mezzo gaudio è la sola difesa che abbiamo, la sola strada che abbia un senso percorrere.

Dove si firma per 12 mesi d’autunno?

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“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”

– Italo Calvino, Le Città invisibili

 

Riconoscere cosa, in mezzo all’inferno, non sia inferno. E farlo durare, e dargli spazio.

Questa è un po’ la meravigliosa ricetta, come un lascito testamentario, del grande Calvino, ma soprattutto questo era un po’ il mio proposito di ieri, quando alzatomi con tutta calma, mi sono diretto verso i miei boschi, i sentieri di sempre. Sapevo che avrei trovato qualcosa che in mezzo all’inferno, non è inferno. Volevo dargli un po’ di spazio e farlo durare.

Quando si incontra la bellezza e la pace dell’animo, per un attimo, ingenuamente, vien da pensare che la vita tutto sommato sia una figata e che rimanga un grande privilegio, quello di poterla vivere. In realtà credo che sensazioni simili siano un grande ostacolo alla futura serenità perché è solo con la consapevolezza che possiamo non dico salvarci, ma quantomeno difenderci un po’.

Solo sapendo che la vita non è nient’affatto una figata, possiamo apprezzare ancora meglio quelle poche ore di quiete, quei pochi momenti di magia, quegli istanti di incanto, che talvolta, per fortuna, abbiamo modo di provare.

Eccone uno, per esempio:

All’autunno piace vincere facile! Ha una tavolozza di colori, da cui attingere, che non trova confronti con le altre stagioni.

E noi non possiamo fare altro che goderne, in religioso silenzio, proprio come di fronte alle migliori opere dei migliori autori.

Ma non si tratta soltanto della bellezza degli occhi, che si vive in contesti simili. È proprio una bellezza ben maggiore, che affonda “radici” profonde (per restare al linguaggio delle piante).

Si conforta un’idea, in quelle situazioni, con quegli stati d’animo: che conservando la natura, conserveremo noi stessi, che salvando la natura, salveremo noi stessi.

Passiamo numerosi anni della nostra esistenza chini sui libri, calibrando complicate equazioni algebriche, studiando la composizione dei materiali, facendo ricerca e sviluppo sulle comunicazioni dei bit, progettando tutti i futuri mondi possibili … quando la perfezione, in realtà, è sempre stata lì, tutta attorno a noi.

La natura dev’essere proprio l’unica via:

E allora niente, lo sappiamo anche noi che non si può fermare l’autunno, purtroppo, e farlo durare per sempre. Così come non si possono fermare le altre persone, e tenerle lì per noi per sempre. Non si può fermare proprio un bel cazzo di niente, purtroppo.

Non si può fare quasi niente e viene una paura boia. Ma possiamo ogni tanto riconoscere, in mezzo all’inferno, cosa non sia inferno. E dargli spazio, per farlo durare appena un pochino di più.